Rinnovo contrattuale: una storia di silenzi, inerzie e polemiche strumentali

Il Pubblico Impiego italiano ha una memoria lunga, ma qualcuno sembra averla corta. Per oltre nove anni, dal 2010 al 2018, i contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) sono rimasti congelati, un blocco durato quasi un decennio senza che si levassero proteste degne di nota. L’ultimo contratto prima di questa glaciazione sindacale fu il biennio economico 2008-09, firmato il 23 gennaio 2009 per il comparto ministeri. Poi, il nulla. Nel 2010, il governo Berlusconi IV giustificò la sospensione dei rinnovi con la crisi economica e le politiche di austerità. Ma quel governo cadde nel 2011, e chi venne dopo – da Monti a Gentiloni, passando per Letta e Renzi – non mosse un dito per sbloccare la situazione, mentre l’inflazione erodeva il potere d’acquisto dei salari pubblici anno dopo anno.

Nove anni di immobilismo, con un’inflazione cumulata che, secondo i dati ISTAT, superava l’11% tra il 2010 e il 2018. Eppure, CGIL e UIL  non scesero in piazza a gridare allo scandalo. Anzi, il 30 novembre 2016, sotto il governo Renzi, siglarono un accordo che segnò una svolta: i rinnovi passarono da biennali a triennali, un “cambiamento epocale (sic!)” ma privo di clausole di salvaguardia contro l’inflazione, a differenza di quanto previsto, ad esempio, per i metalmeccanici di Landini.

Il risultato? Il CCNL 2016-18, firmato il 12 febbraio 2018, concesse un aumento medio del 3,48% – briciole rispetto a un’inflazione dell’11,48% accumulata nel periodo di blocco. CGIL e UIL apposero la loro firma senza battere ciglio, senza “rivolte sociali”. Curioso, no?

Soprattutto considerando che la UIL, in quel frangente, si godeva il salvataggio, con una leggina del Governo Gentiloni, da un processo per appropriazione indebita a carico dei suoi vertici – un episodio mai smentito nei fatti, ma abilmente messo in sordina.

Arriviamo così al CCNL 2022-24, firmato il 27 gennaio 2025. Un contratto che, dati alla mano, porta un incremento medio di 165 euro mensili per 13 mensilità (circa il 6%), introduce la settimana lavorativa di 4 giorni come opzione e i buoni pasto anche in smart working.

Ma la vera rivoluzione sta altrove: l’impegno a avviare il rinnovo del triennio 2025-27 già dal 2025, con uno stanziamento iniziale di 4,4 miliardi. Un anticipo storico, mai visto dalla privatizzazione del Pubblico Impiego nel 1993. Eppure, i non firmatari – CGIL e UIL in testa – hanno alzato barricate, gridando al tradimento dei lavoratori. Ma cosa chiedevano davvero?

Non un fantomatico aumento del 16%, come qualcuno ha lasciato intendere per strumentalizzare la piazza, bensì uno spostamento dell’1,8% (circa 30 euro) dalle risorse del triennio 2025-27 a quello del 2022-24. Tradotto: rinviare il contratto successivo, ancora una volta, fino alla scadenza, come da tradizione, lasciando i lavoratori ad aspettare aumenti tardivi e simbolici, mentre il potere d’acquisto erode.

Qui sta il punto: tutelare i salari significa garantire aumenti tempestivi, non rincorrere contratti scaduti con contentini a posteriori.

Ma le proteste, guarda caso, cambiano tono e volume a seconda del colore politico del governo in carica, più che delle reali esigenze dei lavoratori.

Una distorsione evidente, che Confintesa FP rifiuta di avallare.

La nostra firma al CCNL 2022-24 non è un compromesso al ribasso, ma un passo verso un modello di relazioni sindacali più equo e lungimirante. Lo dimostra anche il protocollo d’intesa proposto dal Ministro della Pubblica Amministrazione, che affronta temi cruciali come la concreta applicabilità delle norme contrattuali – un progresso richiesto e sostenuto da Confintesa.

In conclusione, mentre altri si perdono in polemiche strumentali, noi guardiamo avanti: aggiornare il dialogo con la parte pubblica, senza lasciarci condizionare da chi governa. Perché i lavoratori meritano fatti, non slogan.

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Redazione
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